Salute

Gabriel, l’agit prop cerca amici di sangue

Ci sono resistenze culturali. C’è paura di essere scoperti malati. Per i romeni c’è il cattivo ricordo delle donazioni di sangue forzate sotto il comunismo...

di Elisa Cozzarini

Camicia sgargiante e occhiali da intellettuale. Gabriel Tshimanga viene dal Congo, ha una laurea in medicina presa dieci anni fa a Roma e due cellulari in vibrazione continua. Lo cercano italiani e stranieri. Malati, donne incinte, ragazze che vogliono la pillola del giorno dopo, i suoi figli, il vecchietto autoctono che accetta il dottore nero perché ha visto ER. E va a finire che si affeziona pure perché «noi in Africa gli anziani li trattiamo con grande rispetto». Da buon africano, Gabriel non è bravo a dire di no. Un anno fa lo chiama anche l?Avis, per promuovere il dono del sangue tra gli immigrati.

Pochi i donatori regolari
«Le regioni dove si è lavorato di più sono Lombardia, Piemonte e Liguria. Si contattano le associazioni e si organizzano giornate per il dono con unità mobili. A novembre l?abbiamo fatto nella Grande moschea di Roma, a gennaio in quella di Segrate. A Genova sono state coinvolte la comunità islamica ed ecuadoriana», dice Annamaria Fantauzzi, dell?Osservatorio Avis per la cultura del dono del sangue degli immigrati. «Si parla per ora di episodi collettivi e puntuali, veicolati dalle associazioni. Invece sono pochi, ma importanti, quelli regolari e individuali. Tra i casi rari (dieci – venti persone), ci sono marocchini, albanesi, iraniani, bosniaci. In generale i musulmani sembrano i più attivi. Poi ci sono eventi eccezionali, come i cingalesi che dopo lo tsunami sono andati in gruppo a donare».

Si apre il fronte della ricerca sociale e antropologica sulla simbologia del dono, del sangue e del corpo nelle diverse culture. Qualcosa è già stato fatto, ad esempio dall?Avis Toscana sui senegalesi a Pisa e Livorno, sui romeni a Firenze, i ghanesi a Prato. Per gli albanesi, ad esempio, il sangue rimanda alla fratellanza, ma anche alla vendetta. I romeni intervistati a Firenze dicono di donare non perché credono nei valori del volontariato, ma perché può servire a loro. «Va considerato che sotto Ceausescu si faceva per le pressioni governative», aggiunge la Fantauzzi. Nei ghanesi non esiste una vera cultura del volontariato.

Gabriel sembra rassegnato. A Pordenone, dove vive da molti anni ed è referente medico dell?Associazione immigrati, si sente un predicatore nel deserto. «Gli spieghi che è un dovere civico. Il sangue può servire anche alle nostre sorelle e fratelli, qui e in Africa. Lo sanno che là spesso si deve importare perché sia buono, perché non ce n?è. Dicono sì, sì. E poi chi li vede più. Quando c?è da dare, spariscono. Non come quando si fa festa».

Fuori intanto, nella sede dell?associazione, il barbecue è acceso. Un mucchio di marmocchi corre di qua e di là, una coppia con occhiali da sole beve birra a bordo di una decapottabile come al drive in. È sabato, ghanesi, angolani, congolesi si incontrano. Per loro Gabriel ha preparato un volantino in inglese che dice più o meno: «Non chiediamo la luna, basta donare anche solo una volta all?anno. Ma attenzione, qui il sangue si dà a gratis, non ti pagano come nei nostri Paesi. E non tirare fuori la scusa della malaria, mica doni appena arrivato. Devi aver passato almeno tre anni in Europa».

Cambiare le domande
C?è chi ha più o meno fantasia per le giustificazioni. Chi si improvvisa anemico e chi va sul classico, il lavoro, la mancanza di tempo. Chi pensa di dover mangiare il doppio. «La verità è che hanno il terrore di scoprirsi malati di Aids o altre malattie infettive. Alcuni sanno di averle e non lo dicono. E poi, molti africani e soprattutto latinoamericani temono per quello che si farà del sangue. In certe culture l?anima passa da lì. Lo ammettono in pochi, ma sono frequenti pratiche al confine col satanismo».

Qualcuno scopre davvero di essere malato, deve dirlo alla comunità e rischia l?isolamento. In generale si dedica al volontariato chi ha risolto i problemi di ogni giorno, ha una casa, un lavoro, è in regola. «A quel punto serve uno sforzo della struttura di medicina trasfusionale per integrare il donatore straniero. Più di una volta dottori e operatori mi hanno detto che l?immigrato puzza», afferma la Fantauzzi. «A proposito di cultura, forse la prima cosa da fare è riadattare il questionario anamnestico. Tipo, meglio non chiedere a una donna musulmana se ha avuto rapporti extraconiugali a rischio. E vanno riformulate anche le domande su alcol e droga, che per molte culture sono tabù». Insomma, la traduzione non basta. È utile anche prevedere la presenza di mediatori per far compilare il questionario a chi è analfabeta.

«Ma attenzione, anche gli intellettuali hanno le stesse resistenze. Come si deve fare?». Chiude con una domanda, Gabriel. È sicuro che andrà avanti, però si ferma un attimo a riflettere. Cerca di immaginare che consiglio gli darebbe suo padre, che era medico pure lui. E fuori il party continua.


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